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Covid e psicologia. Fattori di rischio. Ne parla il dottor Gabriele Rossi, psicologo e psicoterapeuta

Covid e psicologia. Un binomio, purtroppo attuale che presenta grossi fattori di rischio. Ne abbiamo parlato con il dottor Gabriele Rossi, psicologo e psicoterapeuta.

*Pandemia: identità multiple tra paura e angoscia.

L’attuale pandemia ha prodotto conseguenze psicologiche che ancora non conosciamo a fondo. Si intravedono i primi studi scientifici che necessitano di maggiore tempo per includere ed elaborare dati ancora incerti. Come l’etimologia del termine pandemia ci dice (pan: tutto; dèmos: popolo) quello che accade riguarda tutto il popolo, ogni singolo attore che si muove in uno specifico contesto, la sua rete sociale, con caratteristiche diverse a seconda del ruolo che ricopre e che non è mai uno solo. A tal proposito, Benedetto Saraceno, ci ha bene insegnato che esistono mille identità, esistenti o potenziali, dei soggetti: identità contraddittorie e generatrici di competenze multiple. Si è genitori, immigrati, malati o nonni: le diverse identità si intrecciano offrendo una complessità difficile da cogliere, abituati come siamo a definire ed iper-semplificare. Ecco che creiamo “gruppi artificiali”: donne, malati di Aids, immigrati, bambini, ecc. E’ così forte la necessità di affermare la propria identità che, troppo spesso, perdiamo di vista la soggettività. “E’ urgente riscoprire il noi che ci accomuna in quanto soggetti semplicemente accomunati dalla loro condizione di essere soggetti”.
Per questi motivi abbiamo bisogno sempre di più di quello che Saraceno definisce un “paradigma della sofferenza” ed “una pratica della complessità” per poter analizzare e comprendere ciò che accade intorno a noi. Umberto Galimberti, riprendendo la lezione di Heidegger, ha recentemente parlato di angoscia come emozione fortemente diversa e più pericolosa della paura: la paura ci guida, ci fa fuggire da un pericolo reale o presunto, l’angoscia ci fa vagare spaesati. Davanti alla pandemia l’angoscia prevale. Umberto Galimberti ha recentemente parlato di angoscia spaesante, riprendendo la lezione di Heidegger. Un’emozione fortemente diversa e più pericolosa della paura: la paura ci guida, ci fa fuggire da un pericolo reale o presunto, l’angoscia ci fa vagare spaesati perché non riesce a mettere a fuoco quello che accade, come vagassimo in una nebbia. Davanti alla pandemia l’angoscia prevale.

Conseguenze psicologiche: i dati delle ricerche.

Parlare di conseguenze psicologiche è importante, ma è doveroso districarsi nella complessità in cui viviamo. Conseguenze psicologiche per la donna che è madre di bambini che vanno a scuola o di quelli un po’ più grandi che devono restare a casa davanti al pc. Conseguenze psicologiche per l’artigiano o il commerciante che non sa come andare avanti con la propria attività, attanagliato dalle preoccupazioni, dalla minaccia del futuro incerto. Se questo artigiano o commerciante è anche un giovane padre? Allora si intrecceranno le paure che minacciano non solo il suo futuro ma anche quello delle persone che ama e di cui si sente responsabile. L’adolescente, a cui è negata la possibilità di sperimentare relazioni e luoghi diversi, fondamentali a quell’età, oggi per loro è negata addirittura la scuola nelle sue infinite sfaccettature di possibilità. Ma potremmo proseguire oltre e pensare alle persone che vengono definite, a torto o ragione, “fragili”: persone con disabilità, anziani, immigrati e altri ancora.
Alla loro rete, magari quella già povera di chi vive in istituzioni che la pandemia ha flagellato e isolato. La nostra abitudine a generalizzare ed iper-semplificare deve metterci in guardia dal parlare di tutti allo stesso modo. La quarantena, l’isolamento in campagna è, senza dubbio, diverso da quello vissuto in città: in un appartamento o in una bella casa, da soli o con qualcuno vicino. Le differenze ci sono, i primi studi le evidenziano. Uno studio italiano, ad esempio, ha approfondito le conseguenze psicologiche in pazienti adulti con Sclerosi Multipla: non emergono livelli maggiori di ansia o depressione di fronte ai cambiamenti di vita imposti dal lock-down. Perché? Gli autori offrono diverse interpretazioni. Il campione era costituito da giovani adulti e sappiamo che, adolescenti e bambini hanno sofferto di più durante l’isolamento.
Inoltre lo studio è campano e si è svolto a marzo: là la pandemia aveva avuto, nella prima ondata, effetti minori delle regioni del Nord ed è possibile che il pericolo sia stato avvertito in misura minore. Io aggiungo anche che, in soggetti con una scarsa rete sociale e con difficoltà a sperimentare i diversi contesti (lavoro, tempo libero…) in alcuni casi, l’isolamento ha rassicurato ed ha mostrato, proprio nelle categorie più fragili, maggiore resilienza. Uno studio su persone con disabilità intellettiva da parte del gruppo di Cecilia Marchisio, dell’Università di Torino, ha mostrato proprio questo: le persone che già prima avevano poca “rete sociale” hanno affrontato meglio l’isolamento e il differente stile di vita imposto dalla pandemia. Un’altra ricerca ha analizzato i dati pubblicati in letteratura sugli effetti psicologici diretti e indiretti causati dal Covid-19. Tra gli effetti diretti, si evidenzia un aumento di diagnosi di Disturbo Post-Traumatico da Stress e Depressione in pazienti che hanno contratto il virus.
Tra gli effetti indiretti emerge un incremento di ansia, depressione e altre conseguenze che hanno inciso sulla salute mentale di operatori sanitari coinvolti nell’emergenza. Proprio sul tema del “burden”, ovvero del fardello fisico e psicologico di chi assiste altri malati, appaiono diversi studi che mettono in evidenza la presenza di sintomi come ansia, depressione ed altre problematiche psicologiche negli operatori sanitari impegnati, spesso con turni pesanti, durante l’emergenza. Se poi prendiamo in considerazione i caregivers informali, ovvero familiari che assistono un proprio congiunto, vediamo che, anche in questo caso, è molto difficile generalizzare. Differenze legate al contesto e alle diversità nelle disabilità intellettive: alcuni studi attuali mostrano proprio che emergono livelli di resilienza maggiori e che l’isolamento, in alcuni casi, ha permesso una maggiore vicinanza, quasi un “tempo ritrovato” che ha permesso ad alcuni di vivere meglio le difficoltà dell’isolamento.
Quando però erano presenti comportamenti problema (auto o eteroaggressvitià), la diminuzione di benessere aveva un impatto su tutta la famiglia. I primi studi evidenziano anche i rischi maggiori che corrono, durante la pandemia, i caregivers di persone affette da demenza dove aumentano solitudine e affaticamento legato alla maggiore età del caregiver, e al far fronte a problemi di natura sanitaria e comportamentale della persona accudita. Un recente articolo su queste persone evidenzia l’importanza di un sostegno, anche telefonico, per ridurre i problemi di solitudine e di stanchezza fisica e psicologica.

Covid e neuroscienze: un terreno da esplorare.

Un’altra area di cui la psicologia deve farsi carico è l’esplorazione, ancora agli albori, dei danni cerebrali causati dal Covid. Se è vero che le crisi respiratorie sono i sintomi più diffusi e quelli su cui viene posta la massima attenzione, iniziano ad emergere i primi dati sul fatto che oltre ai polmoni, il virus possa colpire altri organi come il cuore, l’intestino e il sistema nervoso centrale e periferico. La Società Italiana di Neurologia, già a luglio, ci metteva in guardia rispetto alla comparsa di sintomi infiammatori come encefaliti, mieliti e altre complicanze neurologiche; anche se non è stata ancora dimostrata una correlazione diretta col Covid-19.
Diversi studi condotti in Italia e all’estero hanno mostrato la comparsa di sintomi neurologici in pazienti covid anche giovani e anche a distanza di tempo, ma sono necessari ulteriori approfondimenti per capire se esiste una reale correlazione con il virus. A tal proposito la ricerca dell’Ospedale Mondino di Pavia, condotta dal dott. Blandini, aveva messo in evidenza che oltre alla mancanza di olfatto e del gusto, in alcuni pazienti, il virus stava minacciando anche l’attività cerebrale dei loro malati. Questa ricerca ha inaugurato la definizione di “NeuroCovid” ovvero di malati di Covid che, in seguito, hanno avuto complicanze neurologiche. Anche Stefano Pallanti, associato di psichiatria all’Università di Firenze ha evidenziato la presenza di sintomi neuropsichiatrici associati a sintomi psicosensoriali nell’80% di casi rilevati dai primi studi in Cina.
Del resto sappiamo bene che anche la Sars e la Spagnola hanno provocato encefaliti anche a distanza di tempo. Un’interessante contributo sottolinea la necessità di approfondimento di danni neuropsicologici che si presentano, anche a distanza di tempo, in pazienti affetti da Covid-19 paragonando le conoscenze di danni simili derivanti da altri due terribili virus quello della Sars e quello dell’HIV, le cui conseguenze sulle funzioni cognitive sono più note: pare che il covid, in alcuni casi, provochi danni attentivi e mnemonici. Forse è prematuro tirare in ballo le neuroscienze tra gli effetti del Covid-19, tuttavia, anche il neuroscienziato Eric Haseltin ha affermato che il virus può attaccare il sistema nervoso e uno studio giapponese ha mostrato che in alcuni pazienti con problemi respiratori sono stati intaccati anche i centri troncoencefalici. Evidenze da confermare, complessità che aumentano e che hanno bisogno di tempo per l’approfondimento ed il consolidamento delle conoscenze.

La frammentazione di questi studi mostra un fenomeno complesso con infinite sfaccettature e conoscenze da integrare. Dati che necessitano di molteplici chiavi di lettura e che ci mostrano ancora una volta, l’impossibilità di generalizzare ed i limiti della semplificazione. I dati scientifici hanno bisogno di essere consolidati ma devono essere incrementati in quel paradigma della complessità di cui ci parla Saraceno per analizzare i fenomeni. Intanto, nel far fronte all’emergenza, il contributo della psicologia potrebbe essere prezioso: non solo come possibilità che offre alla ricerca scientifica e per la programmazione di interventi futuri, ma anche adesso durante la fase dell’emergenza.
Purtroppo c’è ancora scarsa considerazione da parte delle istituzioni e un po’ di più potrebbe esser fatto: basti pensare alla presenza dello psicologo nelle équipe di medicina territoriale, al suo coinvolgimento per gli operatori sanitari del servizio pubblico e privato, per i rapporti con i familiari di pazienti ricoverati, per i caregivers, per tutte quelle fasce deboli che si trovano spaesati e ancora più isolati in una comunità che ha dovuto chiudersi in casa, allontanarsi per difendersi e che dovrà ricostruire se stessa.

*Dottor Gabriele Rossi, psicologo e psicoterapeuta.
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