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Covid. Il valdarnese Lorenzo Stocchi racconta la sua “odissea” nel salotto di Bruno Vespa

Dalla rianimazione a Porta a Porta, la “terza camera”, il salotto televisivo più famoso d’Italia. Lorenzo Stocchi è stato scelto da Bruno Vespa per rappresentare tutti i malati che ce l’hanno fatta. E questo proprio ieri sera nella trasmissione speciale dei 25 anni, sorta di affresco sulla storia recente del Paese.

Una finestra su una storia a tratti drammatica. Un incubo quello che ha vissuto Lorenzo Stocchi, 35 anni, montevarchino. Lavora nella segreteria del sindaco di Terranuova Sergio Chienni ed è finito in terapia intensiva al San Donato di Arezzo.Una volta guarito aveva lanciato un appello accorato ai giovani.

«Bisogna prevenire il virus a tutti i costi, convincere gli scettici. Anche loro se ne renderanno conto quando una persona vicina è in fin di vita, ma sarà già tardi», ha scritto in un lungo post dal letto d’ospedale. La «bestia» gli era arrivata addosso come un rullo compressore.

Quando è giunto al San Donato i polmoni erano in parte compromessi. Ha tenuto il casco per molti giorni, poi in terapia intensiva, intubato. Ha visto morire un compagno di stanza e ha avuto crisi di pianto. Ha perso 12 chili. Il suo racconto parte il 19 ottobre al pronto soccorso oculistico del S.Donato per una lesione alla cornea. «C’erano molti pazienti in attesa, tutti con di mascherina e gel igienizzante.

Ma in qualche modo il virus, o a causa delle difese immunitarie abbassate o per il fatto che inconsciamente mi toccavo spesso l’occhio, è riuscito a passare ». «Dopo cinque giorni, mentre ero in ufficio, ho avuto un leggero mal di testa ma a casa avevo la febbre a 37.3. Automaticamente mi sono isolato».

Il giorno dopo Lorenzo è andato, privatamente, a fare il test seriologico, risultato negativo. Ma una volta a casa, la febbre era salita a 38.5, pur non avendo sintomi. I passi successivi sono stati il tampone, in modalità drive-through, l’intervento dell’Usca e, dato che la situazione stava precipitando per problemi di respirazione, l’arrivo ad Arezzo.

«Ho passato 50 minuti in attesa fuori dal pronto soccorso, erano le 22,30 ma avevo davanti cinque ambulanze. Dopo visita el tampone mi hanno portato in malattie infettive. Con l’RX torace si sono accorti che il polmone destro era praticamente collassato, e anche il sinistro era messo male. Mi hanno messo il casco per respirare, l’ho tenuto per 11 lunghissimi giorni».

«Poi la terapia intensiva. Ed è cominciato l’incubo, tra catetere arterioso, catetere venoso, accessi periferici, catetere vescicale, sonde, tubi. Ero limitatissimo nei movimenti e non potevo muovere bene le braccia per scrivere ai miei cari e per cercare un conforto. Isolato. Nudo, in un letto con medici e infermieri che si aggiravano per la stanza, somministrandomi terapie e azioni per far ripartire i polmoni.

Hanno provato a rincuorarmi, ma psicologicamente era veramente dura. Il mio compagno di stanza è morto e a quel punto sono crollato. Durante le notti infinite, ho avuto incontrollabili crisi di pianto. Il quarto giorno hanno chiamato i miei per informare che mi avrebbero intubato. Non stavo migliorando ed era l’unica via percorribile. I miei genitori in quel momento sono invecchiati, la mamma ha passato la notte a piangere e vomitare.

Quella notte, il medico della rianimazione ha provato a farmi stare a pancia sotto, una situazione allucinante, ma per fortuna ero sedato. Miracolosamente gli alveoli hanno cominciato a riaprirsi. Da lì è cominciata la lenta ripresa».

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