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“Sostenibilità sociale e disuguaglianze. Integrazione o inclusione?” Ne parla il dottor Gabriele Rossi

“Perché la diversità fa paura? Fa paura tanto da tenerla distante, da non volerla vedere. Forse l’isolamento e la segregazione del diverso sono i modi più immediati che i gruppi sociali individuano per rafforzare la propria identità o per arginare le proprie difficoltà?”. Ne parliamo oggi con il dottor Gabriele Rossi, psicologo e psicoterapeuta.

“Le società hanno da sempre tentato di trovare delle soluzioni per convivere con le diversità. Così è stato, ad esempio, attraverso la creazione dei ghetti ovverosia luoghi isolati che consentissero alle persone considerate diverse di vivere come volevano (o meglio semplicemente di esistere), ma non di vivere insieme agli altri. Pensiamo, poi, ai manicomi che, in alcuni periodi storici, diventarono delle vere e proprie città nelle città, dove persone affette da disturbi mentali (o reputate tali) venivano reclusi, senza mai uscire o avere rapporti col mondo di tutti. E ancora più di recente, la segmentazione etnica delle città in quartieri nei quali le minoranze potessero convivere con il resto della popolazione autoctona e dominante, ma ben separate, all’interno di enclaves o relegate ai margini nelle banlieus dei grandi centri urbani. Nell’epoca della globalizzazione abbiamo avuto la possibilità di acquistare oggetti provenienti da luoghi remoti, perfino nel negozio sotto casa o ancora più rapidamente tramite internet, senza neppure uscire. Ma se le merci, come abbiamo imparato, possono circolare liberamente, per le persone non sempre è così.
Quantomeno non per tutti. La disuguaglianza globale, in termini economici, è cresciuta fortemente ed essa trova immediata incidenza sulle libertà di tutti, così oggi ci interroghiamo doverosamente sui modi di ridurre tali squilibri. Se negli ultimi anni si è parlato tanto – e giustamente – di sostenibilità economica e ambientale, oggi diventa urgente parlare anche di sostenibilità sociale. La riduzione delle disuguaglianze sociali è, infatti, il primo passo urgente per pensare anche alla sostenibilità ambientale ed economica: si tratta di una riflessione che riguarda tutti e indica un percorso concreto verso un approccio basato sui diritti delle persone. Le società richiedono di individuare categorie diverse che in qualche maniera diventino bersaglio o, addirittura causa, dei loro problemi, delle cose che non vanno. Pensiamo al tema dell’immigrazione: stereotipi, ovvero opinioni non basate su dati di realtà, dominano azioni e atteggiamenti collettivi.
Se i numeri degli immigrati nel nostro Paese sono relativamente bassi, ove paragonati a quelli di altri Stati, ad essi fanno da cassa di risonanza timori di aggressioni, anche culturali, e di sovraffollamento causate anche da una cattiva informazione o da un’informazione manipolata a scopi politici. La diversità, invece, ci spinge al confronto, all’analisi di noi stessi, alla riflessione sui nostri limiti, alle possibilità nuove che soltanto mondi altri rispetto al nostro ci offrono. È necessario essere curiosi di quei mondi e pensare in modo nuovo. Se ci inoltriamo nel mondo delle disabilità, notiamo come il linguaggio stesso sia un riflesso dei cambiamenti culturali e dei modi in cui tale argomento è stato trattato: si parlava di inserimento negli anni Settanta; poi di integrazione negli anni Ottanta; e ancora la Convenzione Onu dei Diritti delle Persone con Disabilità del 2006 ci ha imposto di cambiare i modi e gli interventi.
Essa non ha fatto che metterci di fronte alla consapevolezza che non dobbiamo costruire luoghi speciali e che non dobbiamo pensare a categorie di persone, ma dobbiamo costruire mondi dove i diritti vengano rispettati, i diritti di tutti. La Convenzione ONU è straordinaria, perché, come afferma Cecilia Marchisio del Centro Studi Vita Indipendente dell’Università di Torino, non aggiunge diritti nuovi e non chiede misure speciali, ma “semplicemente” che i diritti di tutti si applichino alle persone con disabilità, indipendentemente dal tipo di disabilità e senza indicare i relativi livelli di gravità. Siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione: non sono più necessari interventi sulla persona ma sulla comunità. È necessaria la promozione di una nuova cultura, di un vero e proprio cambiamento culturale che deve coinvolgere tutta la comunità. Quando, nell’articolo 3, la Convenzione ONU sopra menzionata parla di “piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”, ci impone di riflettere in termini di comunità e non di persona singola. Non dobbiamo più chiedere alle persone di cambiare, ma dobbiamo pretendere che le comunità crescano e migliorino i modi per accogliere tutti. Il cammino non è mai semplice e lineare: è tortuoso e, molto spesso, lastricato anche di buone intenzioni, che non sempre raggiungono lo scopo. Avere consapevolezza dei propri diritti, investire sulle risorse della comunità significherebbe anche abbattere alcuni costi: andare oltre i servizi alla persona significa, infatti, costruire una comunità in grado di accogliere e curare.
Per fare questo è necessario lavorare: creare occasioni di formazione e di coinvolgimento, rendere consapevoli dei propri diritti, in primis, le persone stesse, le loro famiglie e, al contempo, creare occasioni di scambio, contaminazione e confronto nella comunità che è di tutti e non di alcuni. Nessuno può essere escluso. La strada che ci impone un approccio basato sui diritti è quella che prevede l’abolizione dei luoghi speciali e dei percorsi speciali, superando i servizi alla persona: mentre cerchiamo di percorrere questa strada spunta un ministero della disabilità che, con l’intento di supportare le persone, in realtà crea una categoria fragile, diversa dalle altre dichiarando maggiori attenzioni e sottolineandone la diversità, la marginalità. Spingendo poi tutte le altre diversità a chiedersi: perché noi no? Il mondo delle donne, ad esempio, che ancora fatica ad essere equiparato a quello maschile nelle possibilità di accesso a molte professioni, nelle possibilità di avere uguali diritti nei contesti lavorativi e non solo.
Perché non c’è un ministero per loro? E tutte quelle differenze di genere, con etichette come gay, trans, bisessuale, ecc. che dietro nascondono storie, vite umane che troppo spesso si spezzano proprio perché la comunità li esclude? Quanti sono ancora oggi i suicidi di ragazzi che vivono la diversità come uno stigma, come una vergogna che non lascia via di scampo? Dov’è il ministero per loro? Basterebbe pensare alle persone come individui e non come categorie o etichette, che generalizzano e accomunano storie diverse. Basterebbe pensare ai diritti di tutti e non a quelli di alcuni. Basterebbe la volontà da parte delle istituzioni di vedere l’urgenza nello sviluppo di una cultura della comunità.
Come dice Iacopo Melio, nel suo splendido articolo su “La Repubblica” “basterebbe ricordarsi ogni diversità, senza indossare guanti bianchi ma uno sguardo aperto e interiezionale, che non appiccichi etichette ma le combatta convintamente al punto di non vederle”. Mi piacerebbe ci fosse maggiore rumore: il rumore assordante dell’articolo di Iacopo che risuona con maggiore forza, perché proviene da chi dovrebbe impiegare tutte le sue forze a curarsi dal Covid-19 come sta coraggiosamente facendo lui. Mi piacerebbe che le famiglie delle persone con disabilità urlassero la loro rabbia e che le associazioni mostrassero la loro indignazione. Basterebbe applicare la Convenzione ONU, che, va ricordato, non è una dichiarazione di intenti, ma una legge dello Stato”.

Dottor Gabriele Rossi, psicologo e psicoterapeuta

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