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I racconti della domenica di Massimo Pandolfi. “Nel segno di Don Bosco”

Proseguono i racconti di Massimo Pandolfi, figlinese doc, da sempre appassionato di storia e cultura locale. Questa domenica l’argomento è legato alla storica squadra di basket del Don Bosco. 

“In hoc signo vinces” fu profetizzato a Costantino contro Massenzio, prima dello scontro a ponte Milvio. A noi Don Bosco non profetizzava nulla, ma ancora ricordo l’incitamento dei tanti appassionati, in piedi sotto il freddo o il sole cocente, nel campo all’aperto dei Salesiani, quando le nostre squadre incontravano gli avversari, in amichevole o nei vari campionati ai quali partecipavamo. “Don Bosco, Don Bosco alé alé” era il grido della nostra tifoseria e si alzava corale soprattutto quando andavamo sotto nel punteggio. Ho letto con piacere il bellissimo libretto di Billi e Secciani dedicato allo sport del nostro paese, ma in esso ho trovato una mancanza. Non ci sono accenni alla pallacanestro, che negli anni passati ha rappresentato una vera e propria epopea nello sport figlinese e soprattutto nei miei ricordi e in quelli di molti altri.
Scrivendo mi sembra davvero di viaggiare indietro nel tempo, riassaporando le sensazioni che si provavano prima, durante e dopo le partite, le infinite discussioni in attesa del prossimo confronto. C’erano due squadre in serie A che si contendevano il primato, l’Ignis di Varese e il Simmenthal di Milano e tutti noi, simili ai Montecchi e ai Capuleti, ai Guelfi e ai Ghibellini, eravamo divisi in due fazioni. Non c’erano i playoff e la televisione trasmetteva le due partite di cartello, andata a Varese e ritorno a Milano e viceversa, rigorosamente in bianco e nero e le guardavamo tutti insieme al bar dei salesiani, situato nella parte posteriore dell’Oratorio, facendo un tifo chiassoso ma composto.
Grazie all’opera del primo grande presidente, Mario Filippeschi, fu costruito un campo vero in asfalto, a sostituire quello in terra battuta dove il principale fondamentale, il palleggio, era quasi impossibile. Nelle prime ore del pomeriggio, prima dei compiti a casa, c’erano infinite sfide a un canestro, partitelle all’ultimo sangue, gare di tiri liberi o di “giro d’Italia”, gioco in cui dalle varie caselle intorno alla campana, cioè l’area sotto il canestro stesso, si tirava a turno. Chi faceva canestro poteva ritentare fino a che non sbagliava, tutte le volte avanzando di una casella, fino a terminare il giro intorno all’area, Un vero playground all’americana dove la prima generazione di cestisti figlinesi ha appreso i rudimenti e si è formata. In realtà io preferivo giocare a calcio, nella zona erbosa davanti al campo da basket.
Più in là i miei amici più alti si cimentavano nella nuova attività, strappando all’arte pedatoria anche qualche vero talento. Comunque il mondo della palla a spicchi d’arancia era nel mio destino per cui entrai in quel mondo dalla porta di servizio. Maurizio, per tutti “ciuline”, ora medico stimato, era mio compagno di banco al Liceo Scientifico di Montevarchi. Era uno dei fondatori del basket a Figline, in quanto cugino di colui che aveva portato la nuova disciplina importandola da Montevarchi, Vincenzo detto “cencio”, giocatore di punta di tante formazioni, prima di diventare allenatore, marito di una giocatrice e padre di altri praticanti questo sport (quando si dice una vita per il basket).
Il gruppo di questi “padri pellegrini” si era lanciato nel primo campionato regolare, la prima divisione e la difficoltà maggiore, oltre a quella di scovare un pallone non tanto bozzoluto, era quella di trovare un addetto al tavolo, che stilasse il referto e controllasse che chi azionava il cronometro non “fregasse” (per chi non conosce il basket occorre sapere che ad ogni interruzione il tempo viene fermato e quindi una partita può durare molto di più dei quaranta minuti previsti). Maurizio mi convinse e immediatamente mi trovai arruolato nella famiglia, con l’incarico prestigioso di segretario, Seguivo la squadra anche in trasferta, la domenica mattina, perché anche le società che ci ospitavano raramente avevano un segnapunti e quindi il rischio era quello di aver fatto un viaggio a vuoto o di farsi togliere punti e attribuire falli inesistenti, cose frequentissime nei campetti di periferia, dove la nostra squadra era composta da giovanissimi, ma le altre erano una specie di cimitero degli elefanti di atleti che avevano militato in campionati più prestigiosi.
Per raggiunti limiti di età, non volendo appendere le scarpette al chiodo, si cimentavano ancora nello sport amato, senza la minima voglia di perdere, anzi con il desiderio di prevalere ad ogni costo. Chiaramente il ruolo mi andava stretto e così, appena la federazione fiorentina organizzò un corso per allenatore, mi iscrissi e ottenni il primo “patentino”. Il mio istruttore era Nicola Salerni, che avrei incontrato più volte da avversario negli anni a venire. Il primo sponsor era il Mobilmarket e quindi le magliette portavano questa scritta. Le tute tutte uguali sarebbero venute dopo. Questa necessaria premessa ai miei ricordi, con la prima partita a Figline contro l’Elettroplaid Firenze (o almeno le vecchie glorie della prima squadra che militava in serie C, quindi tre categorie sopra) e la successiva trasferta contro la Congre, in un umido campetto nella periferia di Firenze. Ricordo che perdemmo la prima di circa 20 punti e vincemmo il nostro primo incontro in trasferta. Al ritorno, nel pulmann del Borgheresi, che diventerà il mezzo di trasporto più utilizzato in tante avventure, le risate e i canti di gioia facevano pensare che avessimo vinto la Coppa dei Campioni.
Naturalmente ho tante immagini da far vedere. La prima la dedico ad Andrea Bottacci, grande giocatore e vero amico, oltre ad essere una delle persone più simpatiche che abbia conosciuto. E’ immortalato nell’attività di riscaldamento più praticata da atleti e allenatori del Basket Don Bosco prima delle partite per molti anni, prima che venissero inventati i palazzetti (esistevano già ma per noi erano veramente un altro pianeta): spazzare le pozze che si formavano dopo la pioggia, nelle irregolarità dell’asfalto. L’altra è per mostrare quanto pubblico gremisse i dintorni del campo la domenica mattina alle 11, dopo la messa, in corrispondenza della partita di calcio che spesso si svolgeva contemporaneamente nel campo in terra rossa accanto. Per chi voleva praticare un altro sport, infondo all’oratorio, c’era un bellissimo campo di tennis circondato da alberi e con due veri spogliatoi. I nostri erano in coabitazione con i calciatori”.

Dottor Massimo Pandolfi – Storico

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